domenica 8 marzo 2009

IL VENETO E IL LAVORO: SCENE DA UN MATRIMONIO

Le nozze

Nel primo dopoguerra il Veneto sposò il lavoro. Fu un matrimonio collettivo, dalle città alle campagne fin su nelle valli, ovunque si strinse il legame tra i veneti e il lavoro. E fu così diffuso questo matrimonio che la ricchezza giunse anche nelle più piccole contrade, tanto che il territorio si intreccio con i destini dell’economia e del lavoro. Decine e decine di zone industriali, grandi e piccole, e tanti capannoni dove vivere la vita coniugale. E crebbe la famiglia, i figli si sposarono anche loro e sorsero altri piccoli capannoni. E la festa fu così grande che invitarono gente da ogni dove, che parlavano le lingue più diverse, per portare mani forti per applaudire gli sposi.

La crisi matrimoniale

Eccoci all’oggi, il matrimonio in crisi. Forse il lavoro è scappato con la Romania, o il Brasile e la Cina. Ma no, anche la sono baruffe e abbandoni, separazioni e divorzi. Allora dove andato il lavoro? E “varda chi che te me ghe mena in casa”, migliaia di braccia che hanno piccoli figli a scuola, comprato la casa con il mutuo, impiantato un destino in una terra straniera. Lavoro traditore, dove sei, cosa hai fatto di noi e cosa sarà di noi?

Si respira questo sentimento tra le genti venete in questi mesi di crisi profonda. Si respira il timore di essere stati traditi, abbandonati. Magari senza colpa, come si crede sempre nelle crisi matrimoniali. Qualche imprenditore mi chiama per dirmi che chiederà la cassa integrazione e se ne vergogna, perché non lo ha mai fatto anche nei momenti più duri del passato, quando tra moglie e marito c’era qualche problema. Persino il sindacato, che incontravo raramente mentre le nozze fiorivano, si fa vivo sempre più spesso e, a dispetto delle più ragionevoli previsioni, è ridiventato necessario, perché il matrimonio va salvato, almeno questo s’intende.

Cosa si porta in dote

Quel che è andato non tornerà più, lo sostengono tutti, ma quel che verrà è tutto da scrivere ed è qui che si gioca la sfida di chi si occupa di lavoro, che sia imprenditore o lavoratore. Allora da un congresso di sindacato vorremmo sentire parole che riguardano il lavoro che verrà piuttosto che di quello che esiste e dei suoi privilegi. Mi dicono, non ho esperienza diretta, che nelle terapie di coppia si chiede agli sposi di rivedere innanzitutto i pregiudizi che ognuno ha sull’altro. A chi vuol difendere il lavoro è chiesto oggi di pensare anche a come riprodurlo, moltiplicarlo. E questo comporterà anche rompere i propri schemi, le proprie sicurezze passate per anticipare le promesse future. Non che a questo sfuggano gli imprenditori e tanto meno il territorio, che poi sono i sindaci e i comuni, le regioni e le istituzioni. Perchè la vecchia dote non basta più: abbiamo ancora il sistema della mobilità del dopoguerra, quello della formazione degli anni settanta, ricerca e innovazione sono parole vuote, le nostre agenzie per l'impiego sembrano addirittura ottocentesche. Metropolitana regionale e alta velocità, formazione tecnica e università, politiche attive del lavoro, sostenibilità ambientale come leva di sviluppo, questa è la dote per il nuovo matrimonio. Attorno a queste scelte stategiche deve essere saldata l'unione coniugale: territorio, imprese, lavoratori, insomma il patto dei produttori.

Sta nel coraggio di fare questo la scommessa che si torni alle nozze, nella forza di volgere lo sguardo avanti, di affiancare il merito alle tutele, i nuovi lavori ai tradizionali impieghi, le differenze territoriali all’egualitarismo datato. Si tratta della stessa spinta che pone oggi molti sindaci a rivendicare più autonomia e più responsabilità e, in fondo, la molla di questa nostra storia che non può essere tradita.

Pubblicato sul Giornale di Vicenza di sabato 7 marzo, in occasione del congresso della CISL

2 commenti:

  1. Caro Stefano, la tua metafora matrimoniale è efficace e ben costruita, quello che mi pare manchi nel testo è qualsiasi riferimento alla "fatica" del lavoro. Per rimanere nel tuo, ogni matrimonio (non ne ho esperienza, per cui comprendo meglio...) si costruisce con la fatica e la volontà di farcela soprattutto quando tutto sembra difficile e compromesso. Il lavoro che ha fatto il Veneto che conosciamo ora, industriale ricco e urbanizzato, è fatica di gente che si alza all'alba, si trascina dall'autobus lungo i marciapiedi delle zone industriali che hanno soppiantato le campagne, ed entra in gelidi capannoni dai quali uscirà a sera inoltrata, stanca e sporca. Abbiamo avuto lo sviluppo, ma abbiamo avuto il progresso? abbiamo avuto una vita migliore e non solo più ricca? il padroncino che ha la piccola attività davanti a casa mia e che ha il BMW con quattro scarichi parcheggiato dall'alba fino a notte e tutti i sabati e spesso anche la domenica (ma più nascosto perché non si veda dalla strada)è senz'altro "ricco" ma che cos'è la sua vita, quale tempo "vive" con la sua famiglia? L'operaio che (in tempi di vacche grasse) passa nove, dieci ore in fabbrica e ci torna anche il sabato mattina, che voglia avrà una volta a casa di leggersi un libro o di giocare con i figli? Non sono anche queste le domande da porsi pensando, come dici tu, al lavoro del futuro? Ti propongo queste riflessioni aggiuntive al tuo articolo e ti auguro buon lavoro.

    ciao

    Alberto

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  2. Caro Alberto,
    al lavoro si sono sostituiti i lavori. Modi diversissimi di fare, tanto che la classe lavoratrice è scomparsa per essere sostituita da una moltitudine di lavoratori dai profili più diversi. Alla fatica mi pare si sia sostituito lo stress e l'angoscia, tanto a dire che più delle braccia nel lavoro oggi si impiega più la mente. Ma questo non elude la tua domanda, sulla qualità della vita di chi lavora. Una domanda che deve misurarsi con i "tempi" di lavoro e i "tempi" di non lavoro. I secondi erano diventati una vera rarità e forse dovremmo oggi cogliere la crisi per ristabilire un equilibrio, collettivo e personale, tra i primi e i secondi.
    Stefano

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