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Non è questa la sede per affrontare una disamina dei
significati e delle implicazioni di questa scelta legislativa e di architettura
istituzionale, ma non c’è dubbio che il regionalismo porta con sé una logica
conseguenza: la fine delle province.
Tra mille
difficoltà, cercando di costruire una sofferta trasversalità politica, si è
intrapreso allora un cammino che ha portato al decentramento di numerose
funzioni oggi in capo alle Regioni.
Quello che oggi serve è fare un passo oltre, più coraggio
nell’affrontare la questione.
Uno Stato che si organizza in termini regionali assegna alle
regioni la competenza legislativa e la
programmazione sui grandi temi (sanità, trasporto pubblico, difesa del
suolo…..), mentre affida la gestione dei servizi seguendo il principio della
sussidiarietà. In questa logica sono certamente i Comuni, anche nella loro
forma associata, i naturali destinatari dei
procedimenti stabiliti dalle leggi
delle Regioni. Così sono i comuni che definiscono le politiche sociali sul
territorio, che organizzano il servizio idrico, che elaborano i piani di assetto
del territorio oltre a gestire le funzioni fondamentali dell’anagrafe e dello stato
civile.
Quale
dovrebbe essere lo spazio della provincia in questa ottica, quello di
coordinare i comuni? Mi pare che i comuni, quando li si metta nelle condizioni
di poterlo fare, lo sappiano fare. E
allora perché continuare questo melodramma sulla fine delle province?
Non si
tratta solo della questione dei costi diretti. La riduzione dell’apparato che
sta dietro un livello decisionale rappresenta di per sé un costo che solo se
strettamente necessario vale la pena sostenere.
In un momento di difficoltà economica generale che impone
una revisione corposa della spesa pubblica il costo degli apparati deve essere
in cima alle priorità del decisore politico.
Ma è altrettanto necessario uno svecchiamento istituzionale,
una riduzione dei livelli decisionali. Serve una semplificazione amministrativa
che porti a poche ma chiare responsabilità (chi programma, chi gestisce, chi
controlla) e metta fine al rimbalzo di pratiche e pareri dal comune alla provincia,
dalla provincia alla regione e poi nuovamente dalla regione al comune. L’ordine
potrebbe anche essere invertito.
Semplificare i procedimenti significa innanzitutto
“accorciarne la filiera” burocratica. L’allungamento dei tempi decisionali
comporta – tra l’altro – costi che non sono mai facilmente quantificabili e
richiedono strutture di controllo sempre più complesse e quindi costose. Un
gatto che si morde la coda insomma.
In questi
giorni si sono sentite cose al limite del ridicolo come quella del rischio che
le scuole non riaprano a settembre. Da vent’anni faccio l’insegnate di scuola
superiore e non ho mai visto assessori o presidenti della Provincia andare ad aprire
le scuole. Le scuole le aprono - fino a prova contraria - i bidelli.
Si tratta di una semplice battuta dietro la quale si
nasconde però una grossa verità. Oggi l’Italia ha bisogno di questa
semplificazione, ha bisogno di “rottamare” anche un po’ delle sue vetuste
istituzioni, oltre che un po’ di classe dirigente.
Torno sul coraggio perché di quello ora abbiamo bisogno. E
invito il Governo Monti e tutte le forze politiche che lo sostengono a non
impantanarsi in soluzioni a metà, che non risolvono i problemi ma semplicemente
li procrastinano a data da destinarsi. Avere coraggio oggi significa fare un
passo deciso verso una scelta chiara, significa dimostrare una chiara voglia di
futuro e non la solita nostalgia che diventa difesa del passato.
Intervento pubblicato venerdì 27 luglio sul Giornale di Vicenza
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